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La presentazione di Federica Ravizza.


Il libro è in vendita nelle edicole di Tolmezzo.

«AQUILEIA» DI DIEGO CARPENEDO                                    E IGINO PIUTTI

Ci sono libri che vale la pena di rileggere a distanza di tempo, dopo averne percorse, tutte d’un fiato, la prima volta, le pagine, dense, densissime di fatti, di personaggi, di teorie ed enigmi.
È il caso di «Aquileia»romanzo storico scritto a quattro mani da Diego Carpenedo e Igino Piutti dove è subito evidente che i due autori hanno sommato competenze e sensibilità ed è per questa ragione che la loro collaborazione-contaminazione letteraria ha prodotto un’opera corposa che farà la gioia di qualche erudito che tra tanti anni la riprenda in mano, la riscopra e si domandi cosa sapessero gli autori per formulare teorie urbanistiche, geopolitiche e filologiche condensandole in una ricostruzione logica e plausibile.
È un romanzo che già dal titolo ha un impianto classico ed erudito. «Aquileia», la protagonista, ha una sua consistenza, non ha bisogno di aggiunte e per questo campeggia in questo titolo perentorio e diretto; mentre il sottotitolo De urbis ortu, che rimanda anch’esso alla maniera classica, ha la funzione che avevano quei sottotitoli esplicativi che accompagnavano i primi resoconti di viaggi ed esplorazioni.
Dunque Aquileia è protagonista, in filigrana sempre presente, ma quale Aquileia?
Di lei conosciamo tanto, sono stati versati fiumi di inchiostro per parlare degli anni dello splendore, della devastazione di Attila, del concilio, del Patriarcato e della basilica, delle rovine, del museo, della sistemazione dei percorsi archeologici.
Ne parla anche D’Annunzio in un brano struggente: la vede quando è ufficiale di stanza a Cervignano nella prima guerra mondiale. Ne rimane incantato re Vittorio Emanuele II, anch’egli al fronte, quando la visita col suo stato maggiore e vede un luogo solitario, assolato, forse negletto, mentre accanto alla basilica pascolano i cavalli dell’esercito.
Ma nel romanzo di Carpenedo e Piutti veniamo a conoscere un’Aquileia inedita, quella che non c’era ed è sul suo sorgere che si sono concentranti gli autori colmando un lasso inesplorato di tempo.
Romanzo storico, dunque, genere difficile che sembra andare controcorrente oggi che va di moda una scrittura creativa con la quale alcuni si improvvisano storici e cultori delle tradizioni friulane e carniche scrivendo pagine inzeppate di errori grossolani.
Questo perché il romanzo storico, se fatto bene, pone problemi, lo può scrivere solo chi sa, chi conosce bene la storia (sembra lapalissiano, ma è così) e la può padroneggiare tanto da integrarla con la finzione, unendo due elementi: il sostrato storico e la fantasia letteraria.
Diego Carpenedo e Igino Piutti possiedono competenze che nella stesura del romanzo si sovrappongono e si integrano. Piutti è uomo di lettere e politico, Carpenedo è saggista e scrittore, anch’egli politico ma con una formazione scientifica, è un ingegnere e ambedue sono carnici: ecco perché danno vita ad una ambientazione che non è di maniera, non è un fondale di cartapesta, ma conoscenza diretta e profonda, estremamente sostanziosa.
Il loro romanzo ha una struttura lineare: dopo un antefatto, la vicenda si dipana in capitoli dedicati alternativamente a Roma e al Friuli, in un dualismo bilanciato, in un doppio registro di linguaggi e situazioni.
La trama è ricca di personaggi, copre vari anni, quasi fosse una saga famigliare; non mancano i colpi di scena e si giunge ad una accelerazione finale che potrebbe essere benissimo la sceneggiatura di un film d’azione. Gli autori usano una tecnica narrativa molto collaudata: il narratore onnisciente che tutto permette allo scrittore, ed infatti loro sono ovunque, vedono ogni cosa, dai paesaggi alle scene d’amore sino ai moti dell’animo dei personaggi, buoni o cattivi che siano; per capirci, come faceva Manzoni che sapeva tutto dell’Innominato, di Don Rodrigo, della Monaca di Monza e un pochino anche della scialba Lucia.
Il protagonista, preso dalla storia, è il triumviro Manlio Acidino mandato da Roma nel Caput Adriæ nel 183 a.C.: Aquileiæ coloniae deducundæ, questo il suo compito. Da queste esilissime e lontane notizie prende vita un personaggio a tutto tondo e il lettore vede la terra carnica e friulana con gli occhi del triumviro lontano nel tempo ed è questo uno dei tratti più riusciti e sorprendenti del romanzo.
È una terra descritta in ampie panoramiche, in vedute scenografiche quasi fosse ripresa a volo radente: la Carnia e il Friuli come allora potevano essere. Si avverte una nostalgia per quelle terre intatte, quasi si prova la sensazione di una scoperta geografica a ritroso, in pagine di una stesura nitida e puntuale. I paesaggi sono descritti con dettagli esatti, minutissimi, ci sono i suoni, i colori e gli aromi in una sinestesia esuberante che lascia stupiti, come avveniva nei resoconti geografici settecenteschi, che parlavano di terre lontane, mai viste. La Carnia, il Friuli e Aquileia sono una terra nova, una new-found-land, lontana, non nello spazio, ma nel tempo e tutta da scoprire. Gli autori pare scrivano di un mondo a noi contemporaneo, oppure come fossero diretti testimoni e avessero vissuto intensamente quelle vicende di duemila anni addietro, ed è così vero l’impatto visivo delle descrizioni che anche ogni azione diventa verosimile e si giunge alla sospensione di incredulità: se tutto intorno è così esatto, se il paesaggio è descritto a palmo a palmo, crinali, vallate, ruscelli, sentieri, boschi, sarà vera anche la vicenda. Estremamente realistica è la connotazione di Acidino, il protagonista, un “io diviso” capito in due scenari diversi. Egli agisce nella Roma repubblicana popolata da una pletora di personaggi colti, vittoriosi, smaliziati, cinici, dove incontriamo Catone, Ennio, Stazio, gli Scipioni, dove si parla di Annibale e si incontra Carneade (sconosciuto a Don Abbondio ma non agli autori) e li vediamo tutti muoversi con disinvolta naturalezza dopo che li avevamo dimenticati sui libri di scuola.
L’ambientazione carnica e friulana offre delle suggestioni inedite: il Kurm, Akilia-Aquileia, i Karni, i druidi, guerrieri e pastori e villaggi entrano in massa nella letteratura, tratteggiati con competenza e trasporto, forse mai visti così da vicino e con un approccio descrittivo non scontato. Gli autori conoscono l’anima di queste genti e le descrizioni sono un condensato della loro conoscenza cui va aggiunta una massiccia dose di trasporto che altri non possono avere e che trasfondono nel personaggio di Acidino.
Come in tutti i romanzi c’è una storia d’amore, è un amore che segue uno schema noto: il guerriero conquistatore e la regina conquistata, un poco come avveniva per Marcantonio e Cleopatra: il triumviro romano Acidino incontra la carnica regina Medea che entra in scena con una connotazione marcata, quasi una dea, bionda, bellissima, sola, con un figlio da crescere, coraggiosa.
Al primo incontro compie gesti di antica ospitalità, si muove attorno al fuoco, versa il sidro, parla al triumviro di raccolti, di vigneti e frutteti, descrive un’arcadia felice. Medea conquista il conquistatore e Acidino si innamora quietamente, di un amore costante. I due vivono una loro personale integrazione, la più semplice e spontanea, in nuce, quella auspicata tra i due popoli, i karni e i romani. L’integrazione è un tema cardine del romanzo, oggi di grande attualità in un mondo dove culture ed etnie si propongono in un frenetico divenire.
Acidino sogna di fondere karni e latini in una città nuova, ben costruita, nevralgica, e Aquileia sorgerà ma l’integrazione tanto cara al triunviro non potrà verificarsi e quel fallimento lontano nei secoli diventa ora spunto attualissimo per discussioni e progetti.
I capitoli centrali del romanzo sono dedicati agli anni felici della fondazione di Aquileia, si brinda a tokai, un vino prodotto dai karni, vexata quæstio che sta a cuore ai friulani d’oggi, ma anche a falerno, non manca il garum servito accanto al moretum in feste lontane, in notturni suggestivi di plenilunio novembrino dove celti e latini fondono i loro riti e la città nascente pulsa della vitalità di due popoli.
Aquileia non porta solo felicità, e nella vita del protagonista si inserisce un dramma famigliare, la moglie, la romana Clelia, si ammala di malaria e muore dopo essersi negata alla vita della colonia, in quel Nord-Est che lei, di cultura latina, non riesce ad amare. È Aquileia la sua vera rivale, non solo la bionda Medea. Aquileia è una rivale occulta e pericolosa con i suoi miasmi che vengono dalle paludi: il luogo sconfigge chi non lo ama, fa insorgere una vera malattia che però viene anche dall’anima e lo sapeva bene Thomas Mann, grande indagatore della correlazione tra luogo e malattia, disamore e malattia, ambizione e malattia. Sono echi letterari bene assimilati che rimandano alla tradizione di spose portate a morire in luoghi malsani: come non pensare a Pia dei Tolomei il cui destino è racchiuso in quel «disfecemi Maremma»?
Gli amori di Acidino e Medea sono inseriti in scene bucoliche tra acque e fronde che ricordano pastorellerie di maniera, ma poi, inaspettatamente, la narrazione inizia a muoversi su un registro diverso. La trama acquista i tratti di una tragedia, prevale la negatività. Le premesse di buon governo sono disattese, irrompe la guerra e, come in ogni tragedia, entra in scena il “cattivo”, in questo caso il console Longino che viene a Nord Est per far guerra agli Istri. Nella trama si inserisce un episodio tragico: il figlio di Medea e il figlio di Acidino combattono in campi opposti, cadono in battaglia, il loro sangue si mescola in un simbolismo facile ma efficace.
Le pagine finali sono dedicate al tema forte e complesso della sconfitta, una sconfitta duplice per il protagonista piegato dai lutti famigliari e dal fallimento del suo progetto utopico. Acidino sognava una cintura di città attorno ad Aquileia, le città sorgeranno: Trieste sul suo golfo, Gorizia sull’Isonzo, Cividale sul Natisone, Udine su un colle; ma una, che si sarebbe chiamata Carnia, non sorgerà mai. Acidino l’aveva progettata alla confluenza tra Fella e Degano, ma Carnia non c’è mai stata e su questo enigma, su questa ipotesi di sconfitta geopolitica, indagano gli autori, aprono quesiti e supposizioni.
Nelle loro pagine vediamo gli agrimensori muoversi con il pragmatismo dei colonizzatori latini, con forza e sicurezza e poi, all’improvviso, la trama acquista il sapore di un racconto noir, di un giallo. Il lettore avverte che il protagonista corre verso un destino crudele, lo segue nei suoi ultimi giorni, negli spostamenti, nelle decisioni, nelle ore in cui potrebbe ancora salvarsi.
Un complesso intreccio di tradimenti e incomprensioni porta alla morte di Acidino che viene ucciso con un rituale barbarico per mano dei karni in un capovolgimento di valori che sconcerta.
Non vi è lieto fine, non vi è appeasement, e, dopo la morte di Acidino, la regina Medea si rifugia in un colle che prenderà il suo nome, così ipotizzano gli autori.
Il romanzo si chiude lasciando al lettore un sentimento di pietas per quel lontano uomo politico sconfitto amaramente ma Acidino, letterariamente, è in buona compagnia: come tutti i precursori ha coltivato un’utopia, è imparentato con Prometeo, con i Titani, con quelle figure solitarie e volitive che sono state molto amate dai romantici, dai patrioti e hanno creato il mito della sconfitta eroica. Acidino è un eroe sconfitto, ci si schiera dalla sua parte, si sa che dovrà soccombere e per questo la sua figura e i suoi gesti si accendono di pathos. Lo sapeva bene Omero che fa di Ettore un eroe più amato che non Achille. Lo sapeva bene Hemingway che in «Per chi suona la campana» attinge a piene mani al tema dell’uomo solo che affronta la morte.
La sconfitta, letterariamente, è una carta vincente, piacciono quelli che perdono l’ultimo duello in un trionfo di eroismo titanico e duraturo.


FEDERICA RAVIZZA

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